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25 gennaio 2010

Tre Io

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio.

Ringrazio Neo Edizioni per la collaborazione.

L’Io umano, misto di ragionevolezza e follia, loco accogliente o misterioso ai più. Approdo della riflessione, del disgusto; casa, ricovero, spazio franco o di affrancamento. Il libro del famigerato Mario Rossi, pubblicato dai tipi di Neo Edizioni, si azzarda a mettere sul piatto tre Io differenti, ognuno con la propria dose di pusillanimità, con la viltà tipica di chi nella vita diventa cinico a forza di calci – o di stupidità – eppure resta indulgente con se stesso e il mondo quel poco che serve a reggersi sui tacchi alti della civiltà che se ne va in minigonna.

Un libro raccontato dagli Io di Dante, Giulia e Andrea, che si legge non solo con interesse ma anche con un certo stupore (ha una struttura narrativa semplice eppure equilibrata, mirata, resa con una scrittura accattivante particolarmente per il personaggio di Dante; i caratteri si affiancano senza sovrapporsi; si scortano l’un l’altro verso un finale da brivido e luccichii consapevoli negli occhi). Considerato che tutti hanno una identità profonda più o meno certa (tutti meno Andrea, probabilmente, prototipo del sotto-trentenne odierno pressoché istupidito da lampade abbronzanti e troppi decibel in discoteca), la voce di Dante è la più schietta, fino al parossismo e alla delirante lucidità della sua condivisibile follia. Amici delle bottiglie, uomini e donne senza più religione, accomunati dalle trame, invaghiti di quel senso di benessere dato dall’ormai (quasi) ludico uso della ragione, non ancora abdicanti del tutto alla sconfitta, Dante e Giulia cercano in maniere diverse il germe dell’elevazione, del riconoscimento, del riscatto da se stessi. Giulia è la maschera dentro la maschera, un limite presente in ogni donna, convinta – giacché non trova conferme in altro – che l’elevazione passi da una pattumiera o per un perizoma. Tre Io è un romanzo denso che non lascia scampo al lettore – che sia più o meno assennato. Perché lo fagocita. Lo mette a contatto coi propri istinti più o meno bassi, e soprattutto non si vergogna di porre sullo stesso piano la mediocrità dell’uomo odierno con la purezza del suo intento filosofico. Il male di vivere ha sempre avuto interpretazioni più o meno varie, ma oggi appare interpretato un po’ più onestamente, e non pone su inesistenti piedistalli neppure chi per vocazione dovrebbe dirsi già in salvo.

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Alessandra Di Gregorio.