Racconti dell’albero rosso

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio.

Titolo: Racconti dell’albero rosso
Autore: Russo Massimiliano
Editore: Zona
Collana: Zona contemporanea
Data di Pubblicazione: 2011
ISBN: 8864381805
ISBN-13: 9788864381800

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Racconti dell’Albero Rosso, di Massimiliano Russo, è una breve raccolta di racconti in apparenza sciolti, ma perlopiù concatenati da un filo discorsivo dalle valenze fiabesche, moraleggianti, poetiche e/o farsesche (con evoluzioni e involuzioni sia all’interno del dettato che del costrutto), in cui a una lingua facile quasi elementare – pur sempre espressiva – si affianca un fraseggio ricco e pulito.

Il tono fiabesco è dato dall’uso di immagini “minute” e figure infantili da fiaba moderna, in cui il tocco moderno è dato essenzialmente dall’ambientazione e dai referenti del discorso, oltre che dagli aspetti esteriori dei personaggi e da un uso della lingua sintetico e concreto anche quando la lingua è chiamata a materializzare l’immateriale; vale a dire che il lessico si presenta molto estetico ma anche di contenuto. Nell’insieme si ha l’impressione di un disegno in movimento.

La vena moraleggiante si riferisce alla morale in senso classico, anche se gestita in maniera appunto moderna e poco consueta. Ogni racconto custodisce – tanto con l’accompagnamento di una nota ironica o satirica, che con una nota di paternale affetto – una sua cornice di razionalità ad effetto, e l’effetto è dato dal ricorso a un linguaggio estetizzante, labirintico, ricco di assonanze; a volte ai limiti del “filastrocchesco”, in un gioco di bizzarrie più per l’orecchio che per la semantica.

L’approccio è infatti alto rispetto a ciò che ci si aspetterebbe da un autore tanto giovane e per di più alle prese con racconti spiccioli e brevi, talvolta appena abbozzati, talmente sottili da intravvedersi appena; a volte il lessico è scarno, a volte meno, al punto che la scrittura appare ellittica e non dice anche quando sta dicendo. La leggerezza è un altro tratto fondamentale dell’Autore, unitamente a consapevolezza e dolcezza.

Le figure del discorso sono personaggi sui generis e al tempo stesso figure prese dal vero. L’Autore genera una commistione senza tempo tra la magia della parola – con un dettato molto equilibrato e inquadrato – e l’uso di tocchi molto moderni quando introduce figure attuali di cui mostra i vizi, arrivando a smitizzare il suo linguaggio più aereo e/o labirintico, per renderlo semplicemente concreto e motteggiante. Solo a un certo punto però, i personaggi cominciano a sommarsi nello stesso racconto, e le loro storie diventano una storia più nutrita. Il Narratore rafforza la sensazione di stare a giocare col Lettore, usando le storie come farebbe un bizzarro giocoliere.

Segnalo nell’ordine:

Nudo e gli altri uomini nel tempo, un brano in cui la figura dell’uomo è raccontata attraverso la perdita dei costumi – in questo caso il “vestito” funge da analogia col concetto di Società – e Nudo riporta, nel suo vagare, il resto degli uomini alla elementarità, scoprendo, com’è probabile che accada, più l’assenza di valori elementari che altro. Spogliati dei costumi e dei principi, c’è solo pelle e l’Autore parla della pelle “che prude se non ti lavi” (un concetto altamente qualificante per la sua penna, non c’è dubbio), e di un “gyser” in grado di ripulire. Nudo cerca la fonte, cioè l’origine dell’essenza primitiva, e trovatala, è lì che va a lavarsi, ma suscita curiosità in chi lo guarda e ne scopre le idee anticonvenzionali; Gon è vestito, infatti, cioè ha una posizione sociale gradevole agli occhi di chi gli sta intorno – è accettato – e Nudo si chiede se sarà in grado di rinunciare a ciò che lo conforma, ma verrà sorpreso proprio dalla volontà di Gon (una leggerezza?) di volersi lavare alla fonte segreta. Al momento del sopraggiungere del poderoso getto, Nudo, già ridotto ai minimi termini, è tutto ciò che resta, perché Gon – vestito di Civiltà – svanisce con l’acqua, in quanto inconsistente, praticamente non esisteva. Dunque noi cosa siamo? Proiezioni del disegno di qualcuno? Interrogarsi a riguardo è sempre giusto. In questo racconto – per altro il racconto proemiale della raccolta – il senso vivido della necessità di auto-inquadrarsi è ciò che sostanzia l’intero soggetto. Da qui deriva anche il fascino di una visione completa, unitaria, riassuntiva. In generale, infatti, l’intero libro si concentra sulla questione delle identità, dei punti di vista, della formazione e deformazione dell’individuo posto di fronte a se stesso e dell’individuo a contatto con altri e con la Società, delle sue modificazioni, sviluppi, etc.

La mosca parlante, il guaio di Lucignolo, è uno dei brani più gradevoli. Quando l’Autore rende più manifesto il senso di quanto andrà a comunicare, il Lettore si sofferma facendo meno sforzi per seguire il “groviglio ipotattico” del testo. In questo racconto non solo viene fuori l’interessante punto di raccordo tra una storia nota – quella di Pinocchio – e quella immaginata di Lucignolo, ma nell’esatto punto d’intersezione tra l’una e l’altra, è possibile trovare una lucida morale (a Lucignolo è toccata in sorte una mosca che si dichiara Amica, e che dichiara di volerlo guidare fuori dai guai, ma dal rapporto con essa sono dipese le azioni che lo hanno condotto poi a godere di una pessima fama – meritata) ma anche una diagnosi lineare dell’identità del personaggio posta di fronte allo specchio di un antagonista scelto (Pinocchio inteso come il buono della situazione). Impeccabile tutta la periodizzazione. Il testo è asciutto e compatto; il lessico aderente al soggetto, sintatticamente coeso e coerente. In sostanza l’Autore rende conto del fatto che la definizione di identità corrente è anche questione di “Fortuna” – fortuna intesa come l’Agente Caos che addizionando A a B e non B a C, è in grado non solo di influenzare, bensì di generare, un risultato visibile. Contestabile, però, anche nel suo essere fortuito, giacché secondo la logica del giudizio, se A e B sono stati sommati, è perché hanno acconsentito entrambi, quando – volendo – potevano anche opporsi alla fatalità…

Tenente a rapporto è invece un raccontino dissacrante e tagliente. Anche qui, ancora, il gioco delle prospettive identitarie che avverano e demoliscono la persona-personaggio.

Ricordi, uno spiraglio di poesia sul dolce del nuovo che cresce. La vita è un seme che va curato. Possibilità – la parola chiave; esperire ne è la diretta conseguenza. La vita come qualcosa che va avverato ancora e ancora.

La banana di patata, in cui i ruoli principali sono interpretati da frutti con sentimenti e razionalità propri. Anche qui siamo di fronte a un brano scritto molto bene, vertente come gli altri su un’ulteriore visione e/o analisi del problema dell’identità. Infatti, attraverso il camuffamento, è possibile essere una cosa piuttosto che un’altra e rendersi, soprattutto agli occhi di chi guarda, diversi, migliori o peggiori, di ciò che si è in realtà. A parlare è una Mela, la quale, dal suo punto di vista, temendo di essere mangiata, racconta del posto orribile in cui è finita: il sacchetto di carta del Maestro. Con lei una Banana; strana, però, diversa dalle altre, “non faceva parte di nessun casco”. Nel dialogo che hanno, la sgradevole compagna si dimostra poco suscettibile alla probabile imminente fine. Consapevole che “loro vivono di noi”, la Mela ha invece una visione tetra della faccenda, e racconta cosa accade in cucina, come in un perfetto thriller in cui la suspense aumenta di battuta in battuta (il dettato è molto coerente e teso). Nel dettaglio abbiamo l’amara fine di due dolci ananas e una sorta di dichiarazione di vendetta da parte della strana Banana: lei sarà l’ultima cosa che mangeranno. Sbucciata, non si tratterà di una vera banana ma di una patata. Sdoppiamenti d’identità a seconda del fine da ottenere, dunque, e perdita e ricollocazione delle identità reali e presunte. L’agio dell’Autore con l’idea che sta dietro alla manipolazione e creazione dell’Io è straordinariamente vivida.

Il racconto numero 33 del Tenente Lebrorgs è un brano che si slega dalla cornice più aerea della raccolta e si colloca in quella più concreta, anche se pur sempre questioni di Io tratta. Qui il linguaggio è squisitamente allusivo e il lessico viene addomesticato con eleganza e notevole capacità affabulatoria.

I due specchi compendia ulteriormente l’indagine degli aspetti più immateriali dell’identità, e racconta di una ricerca di contatto tra le superfici specchianti di uno specchio. Un brano commovente nelle sue venature di consapevole autenticità, in cui il sentimento d’appartenenza è una ricerca che va oltre. Ciò che fa l’Autore è richiamare all’umanità le cose più care, le varie sfumature dell’esistere e del convivere, come a sottolineare che non tutto si può tangere ed è proprio l’intangibile a creare aspettative, delusioni, insomma sentimenti.

La Bambina con due cuori (e La storia d’amore più triste e La storia d’amore e di gioia nel mondo) è uno dei racconti più belli di Racconti dell’albero rosso; a mio avviso ne è addirittura l’anima. Parla della Creazione e del fatto che per un inghippo c’è scappato che a una bimba sono stati messi due cuori e per contro a un bimbo nessun cuore, e che questo “guaio” deve essere da chi di dovere risolto. Nei brani successivi troveremo anche il punto di vista di chi ha osservato la scena. Dunque non solo l’Autore fa di una sensazione lo stimolo della sua scrittura, ma torna a inserire figure infantili, disegnini scarabocchiati alla meglio, in un contesto dai risvolti filosofici molto più che estesi.

Le scarpe di pelle di stella e Le scarpe di carbone sono due racconti speculari in cui il motivo dell’identità è svolto e mitizzato nella scelta di un oggetto: scarpe di pelle di stella prima, e scarpe di carbone poi.

I restanti racconti sono per lo più slegati o comunque riconducibili a fasi burlesche che intervallano le consuete sfumature poetico-fiabesche. Come si noterà anche dai titoli, essi stessi manifestano un che di infantile, di elementare e tenue, piuttosto che una parentesi più distesa, quasi ridanciana – pur però non fine a se stessa.

Racconti dell’albero rosso è in sostanza una raccolta piacevole. Offre interessanti spunti di riflessione, e tuttavia, se snellita al punto giusto, avrebbe ulteriormente dato lustro a idee e creatività di un giovane promettente.

Alessandra Di Gregorio

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