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7 febbraio 2009

Dopo una sbronza

Ringrazio Arpanet e la sua Redazione per l’accoglienza.

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio.

dopo-una-sbronza

Titolo: Mini concepts moda. DUS (Dopo una sbronza)
Autore: Soldatini Gionata
Curato da: Simone P.
Editore: ARPANet
Data di Pubblicazione: 2007
Collana: Mini concepts
ISBN: 8874260350
ISBN-13: 9788874260355
Pagine: 64

DUS acronimo di Dopo Una Sbronza, è l’ennesimo piccolo gioiello Arpanet, appartenente alla collana Mini Concepts. Mini concetti ben espressi, piccole architetture ben congegnate, sprazzi di lucidità tra una sbronza e l’altra, vite sospese tra il cinismo di una bellezza che tutto acceca e risucchia, e il bisogno di venirne fuori, giungerne a capo, smettere la spasmodica rincorsa. Gionata Soldatini accoglie in DUS la scrittura come una pennellata per rifinire un particolare intarsio su di un vaso. Ha la precisione dalla sua, la stringatezza, la capacità di addensare significati, minimizzare i conflitti con scelte linguistiche ai limiti della neutralità, rendendo tutto come sospeso e catatonico ma mai banalizzando il proprio dettato – ed anzi esaltando la difficoltà immane, tanto morale che filosofica di chi vive l’amore più sotto forma di sberle che di incendi. L’uomo che dall’interno di DUS ci parla a bassa voce e quasi ci viene a sbattere contro, è un uomo appeso a metà tra apparenze scientemente ricercate e gusto del vivere. La difficoltà del conflitto si vive tutta a fior di pelle, senza mai nascondersi o nasconderci stati d’animo che manifestano la sua incapacità di opporsi veramente, ma evidenziando altresì come questo divario possa ricercarsi nelle due donne che animano la storia: da un lato Nicole, dall’altro Kim. Personaggi fondamentalmente appena accennati, complessi, dispotici, nulli e annullabili, eppure mai privi di un artificiale gusto estetico quando non di vera sciatteria interiore – la cosa che si fa più fatica a perdonare, perché manie ne hanno tutti, ma poi curare un tempio vuoto, manifesto della decadenza di uno spirito incapace di brillare di luce propria, ha l’importanza che può avere una preghiera recitata in una congrega di atei: probabilmente nessuna. Il sogno allora prende e si confonde alla vita ad occhi aperti, e l’indigestione di malessere passa nelle fragranze dei fiori, nelle trasparenze del cuore, nella pelle setosa di una donna curata, nelle emotività schiaccianti, nei percorsi mentali deliranti, nelle bottiglie di whisky che occhieggiano alle spalle dell’ignaro barista, il quale non sa – e mai potrebbe – che in quel solo sorso di Clan Campbell che avrà ormai servito a uno spropositato numero di clienti/tristi figuri di passaggio, è contenuta una certa dose di verità; una verità che sostiene l’incoerenza personale rispetto all’artificio della bellezza e del costume più vuoti ed esasperati, – che infine tendono ad eliminarsi da soli perché la facciata non è mai retta da nient’altro – che sostiene il gusto del dolore e la sfacciataggine del gesto di bersi pure l’anima – potendo – di contro alla morigeratezza di un pasto, piuttosto che l’uso di un belletto decorativo – l’esasperazione volontaria del proprio Io tutto da soffocare, tutto da costringere in ignobili pose, in ignobili atteggiamenti, in vuote espressioni e false andature, come una di quelle architetture post-moderne, dove il pregio delle forme classiche non conta niente rispetto all’arrampicarsi in aria di un palazzo di vetro che non vedrà mai l’orma bruna di un mattone impastato con la terra. Come in una sfilata in cui l’abito è sempre diverso e sempre più accattivante, ma chi lo indossa nel frattempo invecchia e si logora e di vecchio porta addosso solo uno straccetto d’anima che già non vive più.

Alessandra Di Gregorio

1 febbraio 2009

Roberto Bianchi

Oggi parliamo con Roberto Bianchi, autore di «Il Sole sul labirinto».

————– intervista a cura di Alessandra Di Gregorio

A: Scrivere. Perché?

Perché mi è necessario. Perché, in fondo, sono ottimista. Perché, in fondo, ho fiducia. Perché, per il momento, sono vivo: scrivere è il mio modo per affermarlo.

A: Scrivere. Cosa?

Racconti. Racconti talmente estesi da diventare romanzi. Racconti talmente brevi da sembrare sospiri. In fondo un artista afferma la propria empatia con tutto ciò che lo circonda. Al di là delle tecniche. E dei “formati.”

A: Tu come scrittore/scrittrice. Chi sei e come ti poni?

Sono un guardone. Quando scrivo realizzo delle fotografie. Dell’anima. Da condividere. Mi piace pensare di essere capace di mostrare panorami nascosti. Mi piace pensare a fotografie tridimensionali.

A: La penna per te corrisponde a…?

E’ lo strumento al quale sono approdato dopo un’esistenza di letture e buone letture. Mi rende possibile l’uso delle parole, il linguaggio maggiormente condiviso. Ma non è l’unico strumento: lo strumento primo è la sensibilità. L’altro, la memoria.

A: Come ti collocavi nei confronti della scrittura prima di pubblicare un libro, e come ti senti adesso, stando ufficialmente su questo palcoscenico che si reinventa di continuo?

Non è cambiato nulla. Su questo “palcoscenico”, per usare il tuo termine, mi sento una comparsa troppo provvisoria. Non esistono  contratti definitivi che assicurino il futuro. Ogni giorno devi ri-negoziare tutto. Ecco, se è cambiato qualcosa, da un  certo punto di vista è cambiato in peggio: prima, avevo paura di non pubblicare mai. Tutto sommato un rischio modesto: al massimo non avrei conosciuto il sapore gradevole dell’affermazione. Ora ho paura di non pubblicare più, e di conoscere l’amaro del rifiuto. E’ un prezzo elevato per quel poco autocompiacimento che soddisfa il nostro narcisismo… Tuttavia cerco di andare avanti con la stessa autenticità.

A: Se dovessi usare tre aggettivi per definire il tuo stile ponendoti però a distanza da esso, ovvero come il lettore della situazione e non come l’autore del libro in questione, quali useresti e perché?

Piuttosto difficile il tipo di distacco proposto. Personalmente  disapprovo certa scrittura sciatta e disadorna, con un vocabolario limitato e frasi non accuratamente costruite. Taluni vorrebbero derivare questa desertificazione da grandi precedenti talmente noti da essere inutile il citarli. In realtà, secondo me, a volte, la prosa scarnificata è solo un atteggiamento manieristico che spesso può nascondere grandi povertà linguistiche,  sacche di ignoranza, sensibilità minerali. Soprattutto non tiene nel debito conto la ricchezza della lingua italiana. Non vedo perché dovrei usare meno note di quelle disponibili per elaborare le mie melodie. Per questo la mia scrittura è, almeno nelle intenzioni, ricercata e accurata. Le parole sono importanti e vanno scelte con criterio. Vorrebbe avere anche una dimensione musicale, perché il fraseggio costituisce un sistema di suoni intimi ed esclusivi.

A: Il tuo libro: riassumilo brevemente e spiega perché qualcuno dovrebbe scegliere di acquistarlo, leggerlo e poi riporlo con cura nella propria biblioteca personale.

E’ un racconto che, attraverso la vicenda  dell’infatuazione di un manager benestante per una giovane immigrata, vorrebbe descrivere il confronto fra due mondi. Evidenzia il coraggio della giovane pakistana e l’ipocrisia inconcludente dell’uomo. Non so proprio perché qualcuno dovrebbe scegliere il piccolo libro di uno sconosciuto: credo che questo dipenda in gran parte dalla forza, dalla capacità e dall’autorevolezza di Arpanet che l’ha pubblicato. E dal suo sistema di distribuzione. Voglio dire qui che apprezzo molto il lavoro del gruppo di persone che si sono messe intorno ad un progetto nuovo, intelligente e ambizioso: Arpanet, appunto. Prima o poi la loro serietà darà frutti ampiamente meritati. Personalmente quando acquisto opere prime o di autori a me sconosciuti mi aiuta molto sapere chi li pubblica.

A: Modelli, forme, criteri e scelte. Si parla molto di tecniche di scrittura creativa e di chi si dice pro o contro. Cosa ti guida, allora, da un punto di vista squisitamente tecnico, durante il flusso della scrittura?

Sono istintivo, ma credo di potermelo permettere perché ho studiato i “testi sacri”. Mi ritengo un grande lettore. Credo che molto spesso quello che manca sia la proprio la consapevolezza che leggere è l’elemento fondante per poter scrivere: viene prima di qualsiasi altra cosa, addirittura , senza conoscenza non può svilupparsi il talento. Reputo assurdo pensare che insegni di più un corso di scrittura creativa organizzato da qualche autore noto al pubblico per le grandi strategie di marketing che lo sostengono, piuttosto che la lettura attenta di classici e contemporanei. Bisogna leggere e poi studiare, smontare e ricostruire. E’ un lavoro faticoso. Del resto anche scrivere è faticoso e richiede metodo: senza il lavoro e la fatica quotidiana il talento, anche se ci fosse, non troverebbe la strada per esprimersi. Non sempre dà frutti, ma senza quell’impegno i frutti non ci saranno mai.  In fondo siamo tutti ladri rispetto a quelli che ci hanno preceduto: l’aspirazione è di essere il malloppo per chi ci seguirà.. Quindi, per rispondere all’ultima domanda, è il flusso  stesso della scrittura che  mi trascina dove vuole in una specie di rafting pericoloso per me. In fase di correzione intervengo, e aggiusto.

A: Le occasioni. Cosa ti emoziona, cosa ti stimola il ricorso alla penna? L’uso che ne fai, è per metabolizzare esperienze biografiche – e per esperienza biografica s’intendono anche quelle concernenti l’anima o fatti derivati dalla propria immaginazione/fantasia spinta – o si pone come “sforzo” d’immaginazione per riempire fogli che altrimenti sarebbe un peccato lasciare vuoti? Vale a dire: scrittura d’occasione o scrittura per mestiere?

Ho un’età piuttosto avanzata ed una vita ormai strutturata. Inoltre sono abituato ai sacrifici che derivano dalle scelte quando sono, allo stesso tempo, rinunce. Vivo quindi la splendida condizione di praticare la scrittura come attività primaria senza affidarle il compito di procurarmi il reddito. Non è d’occasione quindi, ma non è neanche mestiere. Scrivo ogni giorno, alcune  ore al giorno. Sono convinto che ogni espressione artistica sia comunque un’espressione autobiografica, il mio punto di partenza è sempre un residuo di vita. Mia o di altri (ma diventa comunque anche mia mentre ne scrivo), poco importa . Chi scrive ha sempre qualcuno con cui dovrebbe scusarsi

A: Post stesura finale. Metabolizzi in quali modi la fine della stesura di un’opera, ovvero: la lasci mai andar via, o ne resti schiacciato al punto che una critica, una osservazione su di essa, ti pungono fino a farti male? Qual è la tua sensibilità d’artista. Parlaci della tua esperienza diretta.

Quando ho terminato il lavoro, come si dice, lo licenzio. Si stacca da me. E se ne va per altre strade. Prima di abbandonarlo al suo destino l’ho dissezionato così a lungo che nulla che venga detto o scritto su di esso può ferirmi; mi sono già fatto abbastanza male da solo nel realizzarlo e nel correggerlo.

Paradossalmente non lo amo nemmeno più di tanto perché ne ho conosciuto tutti gli aspetti, l’ho sputtanato.

Ho intravisto tracce di insalata fra i suoi denti: il ricordo del suo sorriso è compromesso.

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29 gennaio 2009

Holly Orange

Oggi parliamo con Holly Orange, autrice di «Dove sei Charlie?», che ringrazio della disponibilità e della simpatia.

—————————— intervista a cura di Alessandra Di Gregorio

A: Scrivere. Perché?

Perché è realizzare infinite possibilità. Intraprendere infinite strade. Prendersi gioco del caso. Rinascere, ogni volta, sempre diversi, sempre se stessi.

A: Scrivere. Cosa?

Scrivere di immagini. Sezionare un pezzo di mondo e osservarlo muoversi sotto vetro. Che sia una musica, un colore, uno sguardo attraverso l’aria fredda…sensazioni per immagini, alla ricerca della bellezza, nascosta dalla polvere delle città.

A: Tu come scrittore/scrittrice. Chi sei e come ti poni?

Prima di scrivere storie, le ascolto. Ci pensavo di recente: quando sono in mezzo alla gente, la prima cosa che chiedo è, paradossalmente, di raccontarmi una storia. Non deve necessariamente essere straordinaria o fuori dal comune. Basta un piccolissimo dettaglio per diventare mia, magari totalmente lontana dalla storia di partenza, poi tutto prende forma nella mia testa. Qualche sera fa invitai a cena una mia amica musicista, con il suo bassista:”Raccontatemi una sporca storia di rock and roll!” gli ho detto, non era importante quanto fosse vera: doveva essere intensa, da catturarmi dentro. Lo scrittore è prima di tutto un personaggio, un attore. Non è il protagonista, che dello scrittore è martire e santo. Chi racconta una storia è un personaggio marginale, che però conosce quei luoghi meglio di chiunque altro: passeggia per le pagine senza essere visto, conoscendo tutti, conosciuto da nessuno.

A: La penna per te corrisponde a…?

Ho sempre pensato alla scrittura come un modo alternativo di fare musica. Anche Jack Kerouac lo diceva: “Un sassofonista cosa fa? Tira su un bel respiro e poi soffia nel suo strumento fino a costruire una frase unica con il suo fiato. Così io separo le mie frasi come fossero respiri diversi della mente.” Se dovessi pensare ad uno strumento musicale, la mia penna sarebbe una chitarra, perché l’andamento della frase suoni alla mente di chi la legge come un arpeggio, quando è dolce; distorta e assordante, quando esplode dalla pagina.

A: Come ti collocavi nei confronti della scrittura prima di pubblicare un libro, e come ti senti adesso, stando ufficialmente su questo palcoscenico che si reinventa di continuo?

Ho sempre scritto. Ho sempre avuto la tendenza a “fare storie” in tutti i sensi, fin da bambina. C’è stato un periodo però che ero soprattutto lettrice, e credo sia stato il periodo in cui ho iniziato un approccio più critico alla letteratura, che non vedevo più come piacevole intrattenimento, ma come opera di cui apprezzare la tecnica, dopo averla scoperta. Mi è capitato di restare con lo sguardo fermo su una frase per minuti interminabili, immaginando il modo in cui era stata concepita, con relativo sentimento di odio-amore-ammirazione per il nome dell’autore in copertina. Allora sognavo di capitare io al posto di quel nome, un giorno; di poter suscitare io, con il potere di una sola frase, una tale emozione. Il segreto è non sentirsi mai arrivati. Avere ben chiara la propria strada e cercare di assorbire quanto più possibile dagli stimoli del mondo, senza cercare l’originale a tutti i costi.

A: Se dovessi usare tre aggettivi per definire il tuo stile ponendoti però a distanza da esso, ovvero come il lettore della situazione e non come l’autore del libro in questione, quali useresti e perché?

Ironico: perché ogni cosa è messa sempre in discussione da un punto di vista straniato;

Musicale: perché nella frase, c’è sempre l’eco di una canzone;

poetico: perché anche nella prosa non si rinuncia mai alla poesia.

A: Il tuo libro: riassumilo brevemente e spiega perché qualcuno dovrebbe scegliere di acquistarlo, leggerlo e poi riporlo con cura nella propria biblioteca personale.

Più che un libro è un racconto un po’ più maturo della sua età, che ha deciso di mollare tutto e andare in giro da solo, come un singolo in 45 giri, piuttosto che un LP. Ogni racconto che si rispetti deve essere il momento più importante della vita del personaggio di cui si sta parlando, la penso così: questa storia è un’iniziazione alla poesia, un inno ai luoghi, alle suggestioni londinesi, alla letteratura come guida sacra, all’arte e- assolutamente non ultima- alla bellezza.

Dan è nella sua stanza di Notting Hill, il pavimento ricoperto di vinili, alle pareti i poster di Warhol, Kerouac, Einstein e la Venere di Milo. Tutto quello che gli succederà passerà sotto gli occhi di questi personaggi, ciascuno pronto a dire la sua sull’argomento, sulla base delle loro esperienze. Anche l’amore per Charlie, la ragazza del negozio di dischi, passa attraverso questo cerchio magico, fino a farvi irruzione all’interno. Nel mio racconto c’è una storia fatta di cose che succedono, ma nascosta, sotto, come un sottile pulviscolo nell’aria, c’è una storia fatta di cose che si sentono e basta, che non si possono raccontare. E’ una piccola storia che fa essere anche un po’ felici. E chi è che non vuole esserlo?

A: Modelli, forme, criteri e scelte. Si parla molto di tecniche di scrittura creativa e di chi si dice pro o contro. Cosa ti guida, allora, da un punto di vista squisitamente tecnico, durante il flusso della scrittura?

Una volta ci ho provato a fare un corso di scrittura creativa. E’ stata un’esperienza molto interessante, ma mi sono accorta che non faceva per me.Dal punto di vista tecnico amo molto confrontarmi con i classici e stravolgerli. Mantenere qualcosa e sconsacrare qualcos’altro.Un modo assolutamente postmoderno di agire: nella scrittura infondo, ci può entrare potenzialmente di tutto. E’ l’arte più camaleontica di tutte, perché le parole creano  mondi di cui non si riescono a precepire i confini.

A: Le occasioni. Cosa ti emoziona, cosa ti stimola il ricorso alla penna? L’uso che ne fai, è per metabolizzare esperienze biografiche – e per esperienza biografica s’intendono anche quelle concernenti l’anima o fatti derivati dalla propria immaginazione/fantasia spinta – o si pone come “sforzo” d’immaginazione per riempire fogli che altrimenti sarebbe un peccato lasciare vuoti? Vale a dire: scrittura d’occasione o scrittura per mestiere?

La scrittura nasce d’occasione. Da un bisogno fisiologico. Quando poi si impara a tenerla a bada, perché no, può diventare un mestiere. Ma questo aspetto lo riescono a praticare in pochi. Penso sempre all’arte in genere come qualcosa di libero dalle contingenze, soprattutto economiche.

A: Post stesura finale. Metabolizzi in quali modi la fine della stesura di un’opera, ovvero: la lasci mai andar via, o ne resti schiacciato al punto che una critica, una osservazione su di essa, ti pungono fino a farti male? Qual è la tua sensibilità d’artista. Parlaci della tua esperienza diretta.

Sono molto severa con quello che scrivo. Raramente passo qualcosa alla stampa se non ne sono convinta in prima persona. Sono io la più severa critica di me stessa. Quando però giudico che una cosa risponde ai miei gusti, prendo le critiche come una sfida a persuadere del contrario chi le ha mosse. La scrittura è anche e soprattutto un esercizio sociale, si impara tanto da tutti i rapporti umani che un solo libro ci porta ad avere. Si impara anche, necessariamente, a diventare un po’ meno permalosi e un po’ più disponibili a migliorarsi, accogliendo anche le critiche più pungenti con la maturità giusta. Io so bene di dover fare ancora tanta strada da questo punto di vista, ma so anche di averne già percorso un buon pezzo, a giudicare dagli inizi.


28 gennaio 2009

Via Crucis

Ringrazio Arpanet e la sua redazione, nonché la rivista Progetto Babele per la collaborazione e l’invio del libro di Francesca Mazzuccato.

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio

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Titolo: Mini concepts gusto. Via crucis per corpo e anima svestita nel gusto dell’avvilente voluttà di chi cerca di rimanere vivo. Frammento
Autore: Mazzucato Francesca
Curato da: Simone P.
Editore: ARPANet
Data di Pubblicazione: 2007
Collana: Mini concepts
ISBN: 8874260385
ISBN-13: 9788874260386
Pagine: 32

Via Crucis è un percorso frastagliato, accidentato, al limite del paranoico e dell’abisso. Una serie di sberle e tagli ad un’anima svergognata, continuamente maltrattata da uno schiaffo che però vorrebbe essere una carezza o un soffio. Un percorso doloroso, carnale e sfibrante, con continui rimandi ad un periodo rosa cipria della sua vita – quello con la nonna, per cui ripulisce il linguaggio e fa finta di non sapere cosa sia parlare sporco, figuriamoci comportarsi da puttana. Via Crucis è una salita in cui una donna ha indosso solo un abito lacero e si sbarba le gambe all’aperto, in attesa di qualcuno che la monti e si dimentichi di lei pure se le sta ancora dentro. Questo ritratto impietoso di una bambina che ha smesso in fretta di fare la bambina, che canta di sé come in una nenia senza tempo e si culla nella sua immagine sporca, si legge come un diario a rovescio, dove di segreto non c’è niente e il dolore è un rigurgito dritto in pieno volto, e l’anima fanciulla viene smascherata presto per i troppi stupri diretti e indotti di cui resta vittima – ostaggio volontario, a volte, olocausto innocente, altre volte ancora. La mano della Mazzuccato trema, perché è forte quello che vuole imprimere nello slancio della scrittura, e quello che ne viene fuori è una esplosione di carne martoriata e viva, talmente viva da fare male e pulsare in nome del ricordo, di uno stato d’animo felice che forse non tornerà mai, che forse è morto come morta fu la nonna, come morta fu l’innocenza, come morta fu la speranza.

Alessandra Di Gregorio