10 ottobre 2015

(In)coscienza

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio.

(In)coscienza, di Marco Guerini

IMG_20150929_081616

5 aprile 2015

La disfatta

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio.

 

La disfatta, di Salvatore Scalisi, è un racconto noir da interni, nel senso che la storia, di per sé molto breve e assolutamente scarna (qualità che si ammira più alla fine che durante), si svolge a “cornice” in spazi ben delimitati. Non mi riferisco solo allo spazio fisico quanto piuttosto allo spazio che delimita i dialoghi tra personaggi appartenenti a una piccola cerchia di amici e famigliari, i quali fluttuano in una sorta di aura borghese rispettabile.

Il taglio scelto dall’Autore è, per quanto concerne soprattutto il dialogato (che rappresenta una parte importante del testo), piuttosto impostato; ciò a voler rappresentare – con una forbice molto ristretta – un universo compassato e immobile, fatto di piccoli manierismi negli atteggiamenti (risolti anche a livello lessicale, proprio per “esasperare” questo atteggiamento così estremamente “perbene”).

Il Narratore sorprende con la sua lente uno spaccato di vita cittadina all’apparenza anonimo: persone qualunque che gravitano in modo abbastanza formale l’una intorno all’altra, ma che riga dopo riga vengono messe sempre più a fuoco. Talmente a fuoco che nel giro di poche pagine al Lettore appare più chiara la china verso cui la storia andrà a virare.

Il testo presenta una trama lineare; siamo infatti di fronte a un noir dai toni e dalla tematica piuttosto “classici” (e la brevità del libro è propedeutica alla riuscita del racconto, cosa che a molti autori che praticano il medesimo genere spesso sfugge). Seppure la formalità del linguaggio, unita agli scarni interventi del Narratore, siano in qualche modo fuorvianti (il testo a tratti appare perfino pesante, poiché i dialoghi ricchi di insoliti manierismi rallentano di proposito la corsa del Lettore), Scalisi registra con nettezza e coerenza gli aspetti più grevi che si nascondono alle spalle dell’ambiente (apparentemente) borghese preso a riferimento. Tradimenti e ossessioni, ma anche – come in ogni romanzo di genere che si rispetti – la nemesi finale.

24 luglio 2014

Il pesce fuor d’acqua

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio.

Titolo: Il pesce fuor d’acqua e la mutevole proporzione tra essere e fare
Autore: Mario Caramel
Editore: Kimerik
Collana: Kimera
Prezzo: € 15.90
Data di Pubblicazione: 2014
ISBN: 8868840219
ISBN-13: 9788868840211
Pagine: 286
Reparto: Narrativa contemporanea

Il pesce fuor d’acqua (e la mutevole proporzione tra essere e fare), Kimerik Edizioni, è la seconda prova narrativa di Mario Caramel, dopo Pensa con la tua testa.

Il pesce fuor d’acqua, espressione d’uso comune, è notoriamente qualcuno che ha difficoltà a integrarsi. In una situazione, in un contesto, perfino in un nuovo stato d’animo. Il pesce, che senz’acqua è destinato a morire (o a evolversi?), è l’essere umano posto innanzi alle sfide sociali e personali del tempo in cui è inserito, ma è anche (nello specifico) capitan Marco Epifanio. Dunque aprendo il libro, ci si aspetta da subito – forti del titolo – di trovare che lui passi dalla situazione A alla situazione B, e che su questo tema si svolga l’intera narrazione, fino a un epilogo in qualche modo ‘importante’. Il pesce fuor d’acqua è infatti proprio lui, capitan Marco, protagonista anche dell’esordio letterario di Caramel. Cosa distingue però il Marco di questo libro dall’altro? E cosa dovrebbe spingerci a prendere in mano il libro, dopo aver letto Pensa con la tua testa? Tanto per cominciare l’ottima scrittura di Caramel (di solito se un autore ci piace una volta, tendiamo a volerne seguire le tracce). Caramel tuttavia non nasce scrittore. È prima di tutto un uomo di mare, un musicista e un conoscitore delle genti che grazie al suo lavoro ha avuto l’opportunità di incrociare. Poi però scopre di essere anche convincente con la penna (che è diverso dall’essere semplicemente bravi) e facendo tesoro della propria esperienza, elabora – attraverso alcune figure retoriche ricorrenti (o più precisamente immagini) – i dettagli del suo sguardo sul mondo. Lo sguardo di capitan Marco, uomo che rigetta le convenzioni e che ama il mare, l’elemento fluido che dà sostegno al suo lavoro e al suo spirito, il quale trova la sua ragion d’essere tanto nell’autobiografia di Caramel che nelle biografie dei marinai incontrati sulla stessa rotta.


La particolarità di questo romanzo è che si apre con un proemio che lì per lì lascia frastornati. Dopo la bellissima prefazione, si resta infatti un po’ delusi dall’incipit fiacco, poco incisivo; direi eccessivamente ‘cauto’. Marco è alle prese con una decisione sofferta; l’idea di lasciare il mare, vuoi per la crisi economica, vuoi per una crisi di valori, spinge in qualche modo a riconsiderare i progetti per il futuro. Certo un uomo di mare non pianifica come si fa sulla terraferma. Non si affida ciecamente al caso ma sa svincolarsi dal progresso, se vuole, anche a costo di perdere il privilegio di averne una fetta. Tornare alle origini è frastornante. Bisogna indossare gli abiti propri della civiltà e non è un’operazione semplice, quando si è abituati a rifuggire le comodità in nome del libero arbitrio (anche a costo del pericolo…).

Il Narratore ci offre il quadro della situazione buttando un occhio a quella globale. Non sono anni facili; forse Marco è stato fortunato a lasciare l’Italia, ma laddove uomini come lui, col pelo sullo stomaco e la solitudine nel cuore, possono arrivare, guidati dall’istinto e da capacità innate, per contropartita arriva anche la depressione, e in qualche modo sono costretti a riciclarsi (la bildung del protagonista avverrà con il ritorno sulla terraferma, perché il mare rappresenta la fase giovanile; l’adolescenza protratta nella speranza di non dover crescere, di non dover fare i conti con la società – anche a costo di scelte dolorose che aiutino il soggetto a restare ai margini, libero –).

Il linguaggio è come volutamente apatico, nella primissima parte, per consegnarci lo stato d’animo frustrato e stanco dell’uomo alle soglie del Duemila, lontano, ancora terribilmente lontano, dalla comprensione dei cambiamenti socio-politici in atto, e dunque sofferente, incapace di adeguarsi. Chi ha letto anche il primo romanzo ricorderà l’Autore come una penna densa, precisa, ricca e piacevole. La sua scrittura infatti incanta, semplicemente. Caramel sfoggia proprietà di linguaggio e coerenza, non usa uscire dal solco con fraseggi inutili; è musicale per istinto, emotivo e razionale al tempo stesso. Qui e lì si registrano delle difficoltà nel mantenere alto lo standard narrativo (o ispirativo), ma è condizione involontaria e soprattutto passeggera (probabilmente un po’ tipica di quei testi in cui il Narratore è più propenso a fare ragionamenti, che a mostrare la trama senza esserne coinvolto).

Dopo aver raggiunto le coste del Venezuela e aver guardato di nuovo, con occhi smorti, un mondo poverissimo e contraddittorio, e dopo aver sperato di elevare se stesso nell’idea dell’amore (più che nella coltivazione di un amore veramente possibile), il Narratore risale la china ma a rovescio, soffermandosi anche su una turista italiana. Attratto dalla seduzione, bisognoso di conferme e di quel po’ d’amore che non dovrebbe mai mancare a nessuno, Marco si rende conto più mai che le persone spesso intraprendono viaggi dall’altra parte del mondo, con la stessa preparazione umana di quando si entra in un luna park. La globalizzazione, in fondo, doveva essere altro… Perfino Juanita, la donna vagheggiata, lo deluderà terribilmente. Lui che idealizza e rispetta la donna al punto da passare per stupido… Lui che non ha nulla da mettere sul piatto, in quel mondo materiale dove povertà estrema ed estrema ricchezza convivono.

Poi però c’è l’Italia. La narrazione sale. Tornano quel fraseggio schietto e rotondo, quella descrizione armonica e musicale; quella sorta di stringata ma vigorosa ricognizione di fatti e persone. Marco fa ritorno a casa dopo aver venduto il Grinta (e forse perso buona parte della sua naturale grinta), e da qui in avanti c’è di nuovo la china – in discesa libera, liberissima, per un po’, e poi di nuovo tutta in salita, come capita a quelli che vogliono essere –. Ammirato dalle donne e invidiato dagli uomini, il suo successo è legato alla sua aura di mistero (o ai denari che ha con sé!) e alla nuova moda degli sport costosi (tra cui la vela). Essere scambiato per uno di quelli lo disgusta e al tempo stesso lo rende meno astratto (nel libro si parla di sostanza fluida e materia solida; l’essere è fluido, il fare è solido, solidissimo). Però dura poco, come dura poco la buona considerazione che ha di sé, delle sue capacità d’improvviso inutili. Marco vuol fare il passo più lungo della gamba con donne che non ama. Queste lo trattano da oggetto, da lui non vogliono niente al di là del sesso (condizione a dir poco meschina per Marco). L’unica che sembra volerlo davvero è un’amica, che tuttavia scambia la dipendenza dal sesso con l’amore che attraverso il sesso e basta non attecchisce mai. Allora parte di nuovo: quello non è più il posto della sua infanzia (o semplicemente lui non è più quel bambino che sognando di volare si getta nel grano…). Un uomo come lui necessita di aria, di vedere genti; a un pesce non si possono rimuovere così facilmente le branchie: l’adattamento necessita di fondamentali fasi di passaggio. Comincia la fase critica della bildung.

Smessi gli abiti da marinaio, prova a indossare quelli dell’uomo d’affari (sì, ma a quale costo?). Il Nord è un posto ordinato, troppo ordinato, per Marco; è un posto dove non c’è molto spazio per coloro che hanno perso l’abitudine a tanto ordine e al ‘fare’ sistematico di una nazione che spinge sul pedale del consumo. Forse è proprio qui che prende forma il senso dell’equazione che fa da sottotitolo al libro: ‘e la mutevole proporzione tra essere e fare’, sintesi del pensiero che spiega la posizione dell’uomo moderno nel cammino del proprio esistere.

Atene sembra la meta perfetta per un cambio di rotta drastico eppure proporzionato alle sue qualità. Marco conosce le lingue, ha navigato in lungo e in largo, certo la possibilità del fallimento è più concreta di quello che sembri. Va avanti guidato da un eccesso di voglia di uniformarsi a qualcosa che però non capisce del tutto, e dalla flebile convinzione che possa ancora rientrare nella Società che tanto deplora. La speranza è la nota che più lo agita. Anche quand’è distrutto, egli coltiva in sé qualcosa. Sarà allora la sua coscienza a dipanare in parte il mistero della sua sorte, di quella infinita caduta libera, e a parlargli dei sottili equilibri che regolano la vita. Sarà la sua coscienza a suggerirgli di lavorare per mantenere la giusta proporzione tra (cito) “il male che non puoi impedire e il bene che puoi offrire”. Cito ancora: “lo so che a te piacerebbe volare, ma sei nato in un corpo umano, devi accettare la forza di gravità”. Disincanto e speranza, che ci piaccia o no, vanno a braccetto. Cito: “I turisti come lei, pur nella loro povera consapevolezza, portavano lavoro, mangiavano nei ristoranti, dormivano negli alberghi, prendevano i taxi o gli autobus e affittavano anche le barche come la sua. Lui invece, poteva forse vantarsi di capire meglio cosa succedeva, ma contribuiva ben poco a migliorare la situazione della povera gente”.

Marco dunque penetrerà sempre più a fondo il mistero della comprensione delle leggi sottese alla comunione col creato, ma sarà attraverso le illusorie tentazioni della realtà, che finirà per precipitare in un dormiveglia che (forse) alla fine lo sveglierà in modo definitivo.

Il climax lo abbiamo nel capitolo sei, in cui l’incontro col misterioso Pitios sarà rivelatore. Qui il Lettore potrebbe trovarsi spaesato. Di colpo la narrazione rallenta. È tutto ovattato (come la mente preda dei fumi della cannabis o sotto choc per la fame di giorni) ma incredibilmente chiaro (per la prima vera volta). Del resto, la filosofia prende e seziona, riduce ai minimi termini tutto, spiega a partire da lì, togliendo le strutture superflue; riporta all’origine i termini di cui sono fatte tutte le cose e in qualche modo ce le restituisce intatte. Il ricorso ai numeri serve a spiegare in modo elementare l’equazione sulla quale si regge il mondo, partendo dall’Uomo e dalla Donna, per giungere al significato completo di ciò che siamo, di ciò che facciamo, e di come a un certo punto questo si moltiplichi per tutti gli individui di cui è composta la società del mondo ‘rovesciato’.

Marco in un certo senso è preda della vertigine del crescere, più che del vuoto di valori del mondo, di cui nonostante i tentativi, si limita a essere testimone passivo (come molti). È stato a lungo libero di fare di se stesso ciò che voleva, ma rigetta regole da cui, in vario modo, ha tratto dei vantaggi. Incapace di far parte della società che si è limitato a criticare, posto dinnanzi a stimoli nuovi (diciamo costretto, come tutti), per quanto deludente in apparenza gli appaia il presente (doloroso e ripetitivo, al limite del claustrofobico), è attraverso l’alienazione da ciò che credeva di sapere, che troverà metà delle risposte alle sue domande.

Alessandra Di Gregorio

11 novembre 2013

Cavalcando il Bene e il Male

recensione a cura di Alessandra Di Gregorio. 

Cavalcando il Bene e il Male, di Antonio Rubino.

Romanzo di formazione.

Il mondo, l’amore, la morte, l’arte, la scrittura, le relazioni, visti attraverso la lente deformante/deformata del protagonista – Carlo –. Un sognatore, un visionario, un uomo fin troppo comune, uno scrittore, un filosofo mancato, un uomo poco fedele, un uomo che si crede un ragazzino e però vuole essere un grande scrittore e un grande pensatore; uno un po’ snob che non ama essere snobbato e poi ti fa la morale; uno che non vuole catene e poi però ne sente la mancanza; uno che ha molta immaginazione e spesso poca percezione della realtà, poca accettazione e conoscenza dei propri limiti, fino a sbatterci il muso; uno normale che spesso si crede migliore; uno straordinario, che troppe volte sa di esserlo e non capisce che deve anche meritarselo…

Questa è la storia di un uomo alle prese con la propria bildung, una formazione umana più che intellettuale; la storia di un uomo alla ricerca di una maturità dilazionata, di là dal giungere davvero e in verità così penosamente vicina (e forse per questo rimandata).

Carlo è un giovane che vive le contraddizioni proprie del suo tempo e della sua generazione. Le contraddizioni tipiche di ogni uomo posto a un bivio esistenziale – lo stesso di sempre, lo stesso per tutti –: la molteplicità dei desideri e delle possibilità umane.

Realtà, sogno e finzione gareggiano fino all’ultimo, in un libro denso e scanzonato, visionario, nichilista, delirante, adolescenziale e di nuovo denso e irripetibile. Come le fasi un po’ narcisistiche di ogni adolescente con un po’ d’amore per la lettura e la filosofia, capace d’interrogarsi sui grandi quesiti della vita, con uno slancio straordinario, e di contro così poco propenso a mettersi in gioco davvero, specialmente in amore.

La struttura del libro è lineare in parte, in parte intricata ma capace di generare il pathos necessario a leggerlo fino in fondo. Non è un testo scontato, seppure spesso la scrittura risulti troppo leggera, poco sorvegliata. In generale appare assai scorrevole e – da un punto di vista linguistico, oltre che di pensiero – anche notevole (seppure, come detto, alle volte il lessico venga meno).

Carlo manca di maturità ma per certi versi ne ha fin troppa. Contraddittorio fino all’osso, in realtà racconta il bisogno di emozioni forti e continuative; le aspettative dei giovani a contatto con una realtà che più non li sorprende; il cinismo che in fondo nasce dall’incapacità di misurarsi materialmente sia con i sogni che con la concretezza del vivere.

E poi c’è la vacanza. La vacanza estiva, per la precisione. La vacanza, cioè l’adolescenza allegorizzata, in generale ha un termine che corrisponde al ritorno, alla ripresa della vita banale e contingente; Carlo ha addirittura lasciato il suo lavoro, termine che in genere corrisponde proprio – anche materialmente – all’aderenza alla realtà, alle responsabilità, alla fine dei sogni di gioventù (il più delle volte accantonati per forza di cose). La vacanza è l’ultimo baluardo della giovinezza (prendi l’estate per eccellenza, quella dopo il diploma), cioè sfocia in ultimo nel raggiungimento – di solito poco gradito – dell’età adulta, vista spesso come termine ultimo delle lotte del giovane, come conclusione della ricerca di valori supremi, piaceri supremi, ideali supremi. È un po’ un inno al ‘piterpanismo’ e al tempo stesso la dimostrazione che le bolle di sapone prima o poi si rompono, cioè la negazione del sogno, ottenuta attraverso l’esperienza personale.

Nel romanzo la giovinezza/vacanza si prolunga e diluisce attraverso l’espediente del viaggio e della partenza a sorpresa, dalla spiaggia, con estranei di ogni nazionalità. L’esperienza insolita e non programmata, quale innesco trasversale, permette al protagonista di non riemergere dalla bolla d’aria, ma addirittura di esplorarla. Insomma scatole cinesi, in cui il lettore viene trasportato non dal basso verso l’alto o viceversa, ma da un lato all’altro, affinché siano chiari soprattutto gli estremi.

Il libro è pieno di riflessioni filosofiche sugli aspetti sia concreti che spirituali dell’esistere (sesso e amore tanto per cominciare), eppure Carlo spesso pecca di mancanza di volontà ed è egocentrico da far paura, seppur terribilmente consapevole di nascondersi dietro a un dito; ha paura di essere un adulto a pieno titolo, si svincola dalle responsabilità – lavoro, storie sentimentali serie – per tuffarsi in una realtà parallela, quella che ha sempre agognato, quella in cui essere un po’ viveur un po’ intellettuale. Realtà che però dopo un po’ gli va comunque stretta, dove nessuno è mai all’altezza, dove ci si accontenta di frastornarsi e fare festa. Egli abbandona il mondo delle scelte preconfezionate, a favore dell’universo delle possibilità infinite. E sono tutte molto verosimili, seppur poco sudate, le opportunità che si ritrova per le mani. E così sparisce per un po’, diventa irraggiungibile, frequenta altra gente e altri posti, scrive, soprattutto è pagato per scrivere e viaggiare (sogno o illusione di molti, direi praticamente della maggior parte) e quel suo essere traghettato nel mondo delle possibilità (reale o immaginifico sta poi al lettore scoprirlo, giungendo sino alla fine del libro), rimanda un po’ a Pinocchio, a Lucignolo, al ‘paese dei Balocchi’. Sì, Carlo sta cercando il suo paese dei Balocchi e per un attimo è anche certo di averlo trovato. La festa in quella sorta di eden, ne è la rappresentazione più palese. Ragazze, alcol, amore, poter afferrare le sensazioni e farle proprie. La realtà, però, non perdona. L’edonismo non è felicità, la solitudine non corrisponde alla superiorità. Se manca la condivisione manca tutto, e se manca la capacità di essere ciò che si dice, non si vive, si sogna, si soffre di più. Si scrivono libri che sono solo parole.

Alessandra Di Gregorio